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Storia

La Diocesi di Teggiano-Policastro nasce nel 1986 dall’unificazione di due territori, che nel passato più lontano avevano vissuto eventi quanto meno paralleli, pure coincidenti in qualche tratto.
Dall’età normanna i rispettivi cammini si fanno divergenti: l’istituzione nel 1058 della sede episcopale Paleocastrense rinnovò nell’ottica politica e religiosa del Regnum le sorti della paleocristiana Chiesa bussentina, giungendo, non senza consistenti e progressive riduzioni territoriali, sino ai nostri giorni; il versante interno, corrispondente più o meno all’antichissima Diocesi di Marcellianum, fu invece gradualmente associato, forse a partire dal 1086, alla Sede Pestana, che comincia ad assumere anche il titolo di Capaccio, per poi mantenere solo quest’ultimo.
Da essa si separò solo nel 1850, con la bolla pontificia Ex quo imperscrutabili, la Chiesa di Diano (denominazione medioevale della Teggianum romana) per istanza dello stesso re Ferdinando II, appoggiato dal Metropolita di Salerno del tempo, adducendo alla Santa Sede motivi di sicurezza politica nel controllo della regione.

Pur accantonando la leggendaria credenza, riportata nella antiche memorie storiche locali, che l’Apostolo Paolo, dopo essere sbarcato a Reggio, avesse fondato una Chiesa nella magnogreca Pyxous, poi colonia romana (Buxentum), e altrettanto avesse fatto Pietro nell’entroterra del Vallo di Diano, è da credere che il cristianesimo non tardasse ad attecchire nel nordovest del Regio termia augustea (Lucani et Bruttium), corrispondente al nostro territorio.
Infatti nella campagna di Padula, in contrada San Biagio, desta interesse una costruzione a pianta rettangolare e coperta da volta a botte. L’esame del sacello, che fa corpo unico con un’abitazione rurale, internamente offre una singolare struttura: nello spessore del muro del lato lungo a destra dell’ingresso si delinea, ormai tampognato e alterato da successive manomissioni, un arcosolio, che, insieme con la decorazione pittorica a bande di colore, riquadri e tondi, distribuita sull’intera superficie compresa la volta, con le velate simbologie paleocristiane (albero della vita, stelle, croci, palme), con l’alto finestrino cieco, riprende il linguaggio architettonico e artistico delle catacombe, segnatamente il romano ipogeo degli Aurelii (metà del terzo secolo).
Se fosse possibile associare alla struttura sepolcrale l’epigrafe funeraria conservata sul muro esterno della medesima, relativa a tre donne di cultura ellenistica della famiglia Ansia, e se l’appartenenza di costoro fosse a una setta cristiana della prima età, l’evangelizzazione della contrada potrebbe essere molto retrodata, forse anche alla fine del primo secolo o agli inizi del successivo.

Ma con ogni probabilità un luogo più di ogni altro rappresenta l’antico faro di cristianità della Lucania occidentale interna: il battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte, sempre a Padula, nella sede della Marcellianensis sive Consilinàs Diocesis.
Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, funzionario di re ostrogoti di Ravenna e letterato, in una relazione inviata al suo sovrano negli anni venti del sesto secolo, davanti allo spettacolo della vasca battesimale alimentata «miracolosamente» dalla vena dell’acqua sorgiva non si trattiene dall’esclamare: Habeat et Lucania Iordanem suum.
Forse – siamo indotti a credere – agli inizi del quarto secolo, sotto il santo pontificato di Marcello: «La località – scrive sempre Cassiodoro – chiamavasi Marcellianum: a conditore sanctorum fontium nomen accepit..., allusione a Marcello primo papa (308-309), che dal Liber Pontificalis sappiamo aver ordinato ventun vescovi per diversa loca. Ventun vescovi significano altrettante diocesi e ... altrettanti battisteri».
Prèsuli di Marcellianum sono ricordati dalle fonti, che datano dal 494 al 559, un tal Sabinus sullo scorcio del quinto secolo, a metà del successivo Latinus, diacono della Chiesa grumentina (con giurisdizione nella contigua Val d’Agri).
A imitazione di San Giovanni in Fonte, in seguito, quando ai cristia­ni del posto, cresciuti in numero e in ardore spirituale, risultò non più agevole e sufficiente recarsi, con le difficoltà dei tempi, a ricevere i soli sacramenti dell’iniziazione cristiana a Marcellianum, poiché la cura delle anime richiedeva ormai la presenza più assidua e particolare di una guida nel cammino di fede, doverono diffondersi, sempre in presenza di acque sorgenti, dedicazioni al Precursore nella pianura del Tanàgro, a Sala, a Teggiano, a Polla.

E qui e lì il rito dovette mantenere vivi i segni della matrice culturale della regione che, – come risulta, ad esempio, dalla stessa onomastica dell’epoca, dall’antichissima venerazione per i santi imperatori Costantino ed Elena mantenuta nella memoria di vari toponimi, da forme cultuali mutuate forse direttamente dall’Oriente cristiano (si veda la sostituzio­ne documentata di Attis frigio con l’Arcangelo Michele, che ancora in età moderna a Padula fu onorato con dendroforìe) – affonda le radici in un ellenismo «autoctono ed arcaico»: è registrato il ripetuto appello all’episcopato lucano, bruzio e siculo da parte della Sede di Roma, al tempo di Leone I e di Gelasio I – e la cosa si ripete ben sei secoli dopo, quando Alfano, arcivescovo di Salerno, affida a San Pietro Pappacarbone la neocostituita Diocesi di Policastro nell’ultimo quarto dell’undicesimo secolo –, di uniformarsi alla consuetudine latina d’impartire il battesi­mo nella notte della Pasqua o della Pentecoste, anziché all’uso greco che nella notte dell’Epifania accomunava i catecumeni al Battesimo di Cri­sto nel Giordano. Habeat et Lucania... L’entusiasmo ispirato di Cassiodoro, egli stesso italogreco di cultura e di nascita, fa assegnare con maggiore convinzione il dies sacratae noctis a questa piuttosto che a quelle ricorrenze.

Del Battistero rimane una testimonianza monumentale, a cui le sovrapposizioni e le modifiche operate nell’evolversi della sua storia – oltre alla prima è possibile riconoscere almeno due ulteriori fasi, come commenda dei Templari, poi dell’Ordine Gerosolimitano, e quindi come semplice cappella rurale officiata sin quasi ai nostri giorni –, ma ancor più gli ultimi restauri hanno reso poca giustizia.
Con difficoltà vi si legge il corpo centrale costituito da una quadru­plice arcata su cui era impostata un’ampia cupola a tutto sesto, raccorda­ta al quadrato di base col tramite di trombe angolari: in questo ambiente avveniva l’iniziazione cristiana dei fedeli, che accedevano per sette sim­bolici scalini, come ricorda Cassiodoro, non più conservati. Gli ambulacri perimetrali e l’abside ne determinano una fisionomia architettonica che trova riscontro negli edifici mediorientali del VI secolo, come il martyrion di Chagra o la «sala delle udienze» di Resafa, e che fa presupporre quanto meno un sostanziale rifacimento in epoca giustinianea, forse dopo la conclusione del conflitto grecogotico.
Alla medesima temperie storica e culturale potrebbero essere attri­buiti i volti che dai pennacchi assistevano col carisma teologico del loro mandato – si trattò senz’ombra di dubbio dei quattro Evangelisti – al rito battesimale. L’eleganza e l’accuratezza esecutiva delle loro linee sono un’eco dei mosaici ravennati, dei pannelli eburnei, della suppellettile d’ar­gento, degli affreschi di Santa Maria Antiqua, che fiorirono nell’«età d’oro» di Giustiniano.
Di Buxentum sono tramandati dai Regesta Pontificum i nomi di due prèsuli, Rustico, presente nel 502 al terzo Concilio Romano, e Sabazio, che partecipa al Concilio Lateranense del 649; non v’è notizia peraltro della loro azione pastorale, come accade invece per l’Episcopato marcellianense. Tale lacuna, insieme col fatto che nel 592 papa Gregorio I, con la lettera apostolica Quoniam Velina, commetteva alla cura del pe­stano Felice, rifugiatosi nel kastron portuale di Agropoli per sfuggire alle devastazioni longobarde, anche le Diocesi di Velia, Blanda e Bussento, potrebbe indurre a ritenere che la Chiesa Bussentina versasse in una situa­zione alquanto instabile. Vi s’oppone la considerazione che proprio al VI secolo si deve probabilmente l’edificazione della cattedrale con abside tríchora (mentre a Padula sorgeva forse l’omologo triconco bizantino di San Nicola de Donnis, e una simile architettura occupava l’acropoli me­dievale della Molpa di Palinuro) e titolo greco di Santa Maria Odhijítria, tramandato sino al presente anche dalla voce popolare di Madonna dell’Itria.

Nell’ottavo secolo la documentazione relativa alle due Chiese, Bussentina e Marcellianense, tace del tutto, e la cosa non dovrebbe essere priva di motivazione. Un evento di rilevante portata scoteva l’unità ec­clesiale e politica dell’Impero, con ripercussioni anche locali: l’Editto iconoclasta e la conseguente frattura con Roma inducevano l’imperatore Leone, della dinastia isàurica, a sottrarre alla autorità papale tutti i terri­tori di più diretta pertinenza di Costantinopoli, vale a dire Cìcladi, isola di Creta, Peloponneso, Illìrico, Sicilia, Mezzogiorno d’Italia.
È possibile che alcune Chiese meridionali, infranto il legame con la Sede romana, non sopravvissero. Probabilmente fu il caso di Buxentum – nonché forse di Marcellianum –, dal momento che la regione corri­spondente alla divisione amministrativa, politica e militare bizantina del thèma di Lucania (Lucania occidentale), appare organizzata ecclesiasticamente in province (eparchíe) monastiche: ne riferisce il pa­triarca di Gerusalemme Oreste nel bíos dei Santi Saba, Macario e Cristoforo di Collesano – i quali, partiti dalla Sicilia araba, si diedero a ricostituire nella seconda metà del decimo secolo i monasteri del Mercúrion (lungo il fiume Lao), del Latiniànon (lungo il corso del Sinni), del Lagonegro (regione del fiume Negro/Tanàgro?) – e qualche tempo dopo viene tutt’insieme compresa nella nuova Chiesa di Policastro. La successione Bussento-eparchie monastiche-Policastro sembra escludere una fase diocesana intermedia. D’altronde Polìeutto di Costantinopoli avrebbe istituito due coenòbia proprio in Policastro, San Pietro e San Giovanni Battista, rafforzandone la tradizione monastica.

Che anche la Lucania occidentale non fu risparmiata dall’iconoclastìa, e quindi che la diffusa opinione di un grecismo meridionale importato dai monaci studìti in fuga dai massacri delle truppe imperiali sia da sfatare (si tratta invece, come s’è cercato di proporre, d’una tradizione svi­luppata localmente con caratteri propri e apporti egiziani, gerosolimitani, siriaci, oltre che costantinopolitani), deve esser letta nella geografia dei santuari mariani della regione, i quali come in Grecia e in Sicilia, sorsero, in epoca non lontana dal ripristino dell’iconodulìa, intorno a leggende di ritrovamenti, per divina volontà, d’immagini sacre, precedentemente occultate da pii cristiani.

Regione monastica di rilievo fu pure il monte Bulgheria, retta dagli Archimandritati, o Calogerati, di San Giovanni a Piro (tú Ipíru, `del continente’, `della terraferma’) e di San Cono di Camerota, voluti, pare, dal patriarca di Costantinopoli Anastasio (svista per Políeutto?) nel 968 per suggerimento dell’imperatore Niceforo Foca.
Al monastero erano subordinati, cosa da cui derivò il titolo ono­rifico, alcuni monasteri del «Lagonegro» e del Mercúrion, oltre che del Bulgheria: San Benedetto di Policastro, San Nicola di Sapri, San Fantino di Torraca, San Gaudioso di Rivello, San Nicola di Maratea, San Costantino di Trecchina, San Pietro di Maierà, San Nicola di Grisolìa.
Dell’autorità conferita al «preposto» del cenobio italogreco di San Giovanni a Piro riferisce una croce pettorale a due facce, straordinario manufatto dell’oreficeria bizantina in oro e smalti cloisonnés d’epoca comnena. L’ighúmenos di San Giovanni, fregiato della dignità di archimandrìta, la indossava, è da presumere, durante le solenni celebra­zioni liturgiche o in visita pastorale presso i ricordati monasteri. Allo stavròs epistíthios derivò la nota indicazione «di Basilio» dal nome del supplice ricordato dall’epigrafe in greco sul verso (Madre di Dio, proteggi il tuo servo Basilio), un benefattore del Cenobio, o lo stesso archimandrita che l’acquisì. In ogni caso è da ritenere che l’oggetto fosse stato eseguito su espressa commissione del prostàtis di San Giovanni, o del donatore, piuttosto che un esemplare messo genericamente sul mercato dall’opifi­cio, non soltanto per il segno personale dell’iscrizione dedicatoria, quan­to per il riferimento alla tradizione cultuale del luogo nella disposizione articolata delle figure sacre distribuite sulla superficie, tra cui dominano San Michele e il Battista, determinando una particolarità nella decora­zione delle croci pettorali, dal momento che essa rispondeva più a orien­tamenti devozionali soggettivi che a un genere canonico relativo alla minuta oreficeria d’uso liturgico.
Un ultimo anelito di vitalità religiosa e culturale avvolse il cenobio di San Giovanni nella seconda metà del Quattrocento, quando vi giun­se, inviato dal cardinale Bessarione, il vescovo di Trebisonda Teodoro di Gaza, letterato bizantino di grande spessore, il quale fra l’altro dotò il villaggio adiacente al monastero di moderni statuti. Vi morì nel 1475 ed è seppellito nella Matrice di San Pietro.

San Cono di Camerota ebbe invece il privilegio di esercitare la giuri­sdizione archimandritale sul monastero di San Nazario, «nella regione superiore» indicata dai santi ighúmeni del Mercúrion Fantino, Giovanni e Zaccaria – il primo nella fuga dalle devastazioni saracene dimorò pure stabilmente nella non lontana Torraca, dove sussiste una cappella bizantineggiante a lui dedicata –, in cui vestì l’«abito angelico» San Nilo di Rossano, fondatore della Badia italogreca di Grottaferrata. Uniti a questo erano i metòchia (“dipendenze monastiche”) e le chiese di Santa Cecilia di Castinatelli, di San Nicola di Eremiti, di San Nicola di Bosco, di San Pietro di Licusati. Allorquando San Cono, dopo la visitatio di Atanasio Calceopilo del 1458, fu definitivamente soppresso, il mona­stero di Licusati insieme con le ricordate pertinenze mantenne le prero­gative di Abbatia nullius Dioeceseos fino al 1564, quando fu unito alla Cappella vaticana del Presepe, a cui poi fu sottratto solo nel 1850 al momento della divisione della Diocesi Caputaquense.

Numerosissime furono anche nella Valle del Tanagro (o Vallo di Diano, come fu nominata a partire dal basso Medioevo) le fondazioni italogreche, tanto che non pare fuor di luogo pensare che apparisse in quell’epoca, in cui i pochi abitati erano arroccati sulle alture, anch’essa come una regione monastica. Ricordiamo fra le principali fondazioni extra moenia San Mauro di Buccino, Santa Maria di Pertosa, Sant’An­drea di Auletta, Sant’Onofrio di Petina, San Pietro di Polla, Sant’Arsenio, San Marzano di Diano, San Pietro di Atena Lucana, San Pancrazio e Sant’Ippolito pure di Atena, Santa Maria degli Ulivi di Sala, San Loren­zo di Padula, San Nicola al Torone e San Simeone di Montesano – metòchia del monastero di San Giovanni del Mercúrion –, Santa Maria di Cadossa di Montesano – coi metòchia, chiese e cappelle di San Salva­tore, San Matteo, San Biagio, San Nicola della Valle, San Michele, San­ta Venere (forse monastero femminile), la Panajía (corrotta in San Panaino).

Nel 1131 Ruggero II nel Palazzo di Palermo confermò all’archi­mandrita Leonzio di Grottaferrata, fra i vari benefici, la donazione dei monasteri di San Matteo di Policastro, Santa Maria di Sirìppi di Sanza, San Zaccaria di Sassano, San Pietro del Tumusso di Montesano. Questi ultimi due, insieme con Santa Maria di Vito di Laurino, furono ceduti alla Certosa di Padula con atto finale del 1728, dal momento che costituivano gli unici resti, ormai economicamente poco convenienti, di una delle ampie congregazioni nelle quali, sul modello benedettino, i sovra­ni normanni cercarono di contenere la proliferazione e le tendenze autonomistiche dei monasteri greci dell’Italia meridionale.
I monaci di Montesano mantennero il rito italobizantino, confor­mato al typikòn (il libro delle cerimonie e delle rubriche, nonché regolamento del monastero, espressamente composto dall’archimandrita Luca Felice nel 1575 ad usum monachorum Montis Sani) di Grottaferrata, fino al giorno in cui furono «ridotti a partirsi colle bisaccie in collo» per effetto della vendita fatta ai Padri Certosini a loro insaputa, motivo per il quale l’anziano ighúmenos «senza più, cadde tramortito, e terminò fra poche ore la vita».

Pure Abbatiae nullius furono nel versante di Capaccio i monasteri di San Nicola di Sant’Angelo a Fasanella e San Nicola di Controne, entram­bi forse derivanti dall’italogreco San Nicola de lu Frassu che Lampo di Fasanella e la moglie Emma donarono alla Badia benedettina di Cava nel 1134, ma che nel 1086 Manfredi di Fasanella avrebbe contribuito a fondare, donando all’ighúmenos Atanasio un appezzamento di terra coi relati­vi servizi e benefici. Sino alla fine del Settecento l’uno e l’altro furono esenti dalla giurisdizione dell’Ordinario di Capaccio, conservando prero­gative «quasi episcopali», anche nell’amministrazione degli ordini minori. Nel 1781 il presule Caputaquense Angelo Maria Zuccari privò gli Abati di Sant’Angelo dei privilegi goduti, non senza la sollevazione del popolo in armi.

Il Papa Stefano IX (svista per Stefano X), avrebbe, con bolla del 24 marzo 1058 ad Alfano metropolita di Salerno, istituito la Diocesi di Policastro, conferendogli la potestas di scegliere e ordinare vescovi nelle città di Paestum, Conza, Acerenza, Nola, Cosenza, Bisignano, Malvito, Policastro, Marsico, Martirano, Cassano. La maggior parte di tali Chie­se erano state oggetto di contesa fra i patriarchi di Costantinopoli e i papi di Roma: nel 901-2 erano state istituite le metropolie di Reggio, con suffraganee Cosenza, Bisignano, Malvito, e di Santa Severina; nel 968 il patriarca Polìeutto conferiva al vescovo di Otranto, nuovo metropolita, la facoltà di consacrare vescovi ad Acerenza, Gravina, Matera, Tricarico, Tursi; in risposta Benedetto VII nel 983 sottomette al vescovo di Salerno, da lui investito delle prerogative arcivescovili, le Diocesi di Paestum, Conza, Nola, Cosenza, Bisignano, Malvito, Acerenza, e il disposto sarà confermato nel 1012 da Sergio IV, nel 1016, 1019, 1021 da Benedetto VIII, nel 1047 da Clemente II, nel 1051 da Leone IX.
Con papa Stefano e grazie all’appoggio dei Normanni il desiderio dei romani Pontefici iniziò a prender forma concreta. Il 22 ottobre del 1067 l’arcivescovo Alfano inviò a Policastro il monaco Pietro Pappacarbone, futuro abate cavese e santo, con lettera pastorale in cui si disponeva un radicale mutamento di rito nelle parrocchie e nei monaste­ri della nuova Diocesi; ma non vi poté sostare a lungo a causa di disordi­ni che ancora travagliavano il kastron, le cui mura bizantine, scandite a intervalli regolari da eleganti torrette quadrangolari, ricalcavano il trac­ciato poligonale della italiota Pyxous, da cui il toponimo greco medieva­le di Paleòkaston. Ma fu solo nel 1079 che la sede episcopale ebbe un assetto definitivo col ritorno di San Pietro vescovo.

Il 3 marzo del 1417 il Capitolo di Policastro elesse al trono vescovile l’archimandrita Nicola di San Giovanni a Piro e fu per un’ultima volta un ecclesiastico italogreco a reggere le sorti della Chiesa di Policastro. Ma San Giovanni a Piro donò un presule anche alla Diocesi Caputaquense il 15 gennaio del 1441 nella persona dell’archimandrita Masello Mirto.

Non è documentata invece un’istituzione ufficiale della Diocesi di Capaccio (Caputaquensis Ecclesia), in quanto si configurò, per evoluzio­ne naturale, come ampliamento della Chiesa Pestana. Ancora nel 1071 — ma saltuariamente anche dopo – Maraldus (presenziò pure, nel 1089, al Concilio di Melfi, dove Urbano II ne compose la controversia con l’aba­te cavese Pietro de monasteriis in Cilento territorio positis) conservò il titolo di Paestanus episcopus. Col vescovo Alfano compaiono dapprima entrambi i titoli (Alfanus episcopus Paestanus et Caputaquensis), quindi solo il secondo, quando ab Alphanus Caputaquensi episcopo est unctus in principem Ruggero II nel 1126 o ‘27.
Ma ben presto, forse per l’eccentricità rispetto al territorio di com­petenza, la cattedra Caputaquense dové peregrinare, soggiornando lungamente in Teggiano, già col presule Giovanni, vescovo negli anni quaran­ta del XII secolo, il quale «dimorando a lungo in Diano, vi morì, ed in S. Maria, in Cona Majore, requiescit».
Senz’altro l’assedio di Capaccio condotto da Federico II nel 1246 e il conseguente spopolamento dell’abitato medievale doverono contribui­re all’abbandono e all’impoverimento della primitiva cattedrale presso la quale in seguito solevano recarsi i vescovi solo per le solenni ricorrenze e per la festa della Vergine del Granato.
Un riscontro di ciò potrebbe essere a buon titolo la commissione a Melchiorre di Montalbano – artista di quell’ambiente apulolucano che sviluppò i canoni del classicismo federiciano, esportandoli poi in Tosca­na con le opere di Nicola d’Apulia detto il Pisano – di un pergamo per la chiesa cattedrale di Diano, datato al 1271, che presenta significativi riscontri in quelli più o meno coevi del Battistero di Pisa e della catte­drale di Siena. Per contro il pulpito della cattedrale di Capaccio Vecchia, della fine del secolo precedente o poco dopo, interpretava con un lin­guaggio dimesso le geometrie marmoree dei commessi cosmateschi che ornavano l'«ambone minore» fatto erigere nel 1181 dall’arcivescovo Romualdo secondo Guarna nel Duomo di Salerno, o del «maggiore» offerto dal successore Nicolò d’ Aiello nel 1221.
Dunque al titolo caputaquense non corrispose sempre la sede episcopale, e mentre la cattedrale di Teggiano s’arricchiva di architetture e monumenti, quella di Capaccio acquisì sempre più la fisionomia di Santuario del Granato.

Il vescovo Paolo Emilio Verallo, di ritorno dal Concilio di Trento, mise in atto il disposto relativo alla formazione dei chierici, istituendo il Seminario Vescovile con documento datum Diani die 22 mensis Decembris 1564. L’Erectio seu lnstitutio Seminarii Caputaquensis av­venne fra le prime in Italia. La prima pietra fu la vera del pozzo, con iscrizione Seminarium 1596, posto al centro del chiostrino. L’epigrafe sull’architrave d’ingresso riporta la data dell’apertura: Seminarium 1601.
Nel medesimo anno anche a Policastro sorgeva un Seminario vescovile.
Forse per impraticabilità della sede la dimora dei vescovi venne tempo­raneamente stabilita a Padula, come sembra debba arguirsi dal fatto che qui vi fu celebrato il Sinodo Diocesano del 1567 (Incohata quarto idusApriles 1567 in maiori Ecclesia terre Padule dicte Diecesis pro ea celebranda specialiter electa, Presidente in ea Reverendo Domino Dominico Margano Abbate Sancti Petri deAquaria Canonico et Vicario generali ac visitatore dicte Diecesis et ad dictam Synodum celebrandam per dictum Reverendissimum Dominum specialiter deputato et delegato), e ancor più dal fatto che da qui erano pro­mulgate le disposizioni pastorali dell’Ordinario (si veda ad esempio la Bol­la di fondazione della Cappellanìa dei signori Rubertino in San Nicola dei Latini a Polla: Datum Padulae die 26 octobris 1564. Paulus Aemilius Archiepiscopus Verallus, Episcopus Caputaquensis).

Sotto l’episcopato di Lorenzo Belo, costretto a soggiornare a Salerno per un morbo, il commissario apostolico Silvio Galasso riuscì a convo­care a Teggiano nel 1583 un Sinodo (sub die viginti dicti mensis Junii in piena etpublica Synodo Dioecesana Caputaquensi a Reverendissimo Domino Diani celebrata), benché l’assenza forzata del prelato titolare avesse creato non poco disorientamento in diocesi, tanto che il 18 ottobre del 1579 il vicario generale Francesco Liparola aveva dovuto radunare in Sinodo il clero diocesano a Sala.

Un altro Sinodo, pure a Teggiano, convocò il Vescovo Lelio Morello un decennio dopo, benché avesse eletto la residenza a Sala, dove nel 1595 prese in fitto il Palazzo dei Grammatico per un settennio, in quan­to alle sue motivazioni («Diano era di troppo difficile accesso ed era preferibile la terra di Sala») la Curia metropolitana di Salerno rispose: a dicta convocatione desistere debeat, et si quid pretendit in contrarium compareat in eadem metropolitana audientia. Celebrò ancora in Teggiano un Sinodo nel 1608 (anno Domini MDCVIII Kalendis Junij Diani ab admodum Illustrissimo et Reverendissimo Domino Lelio Morello U.J.D., Dei etApostolicae Sedis gratia Episcopo Caputaquensi).

Ma col vescovo Pietro Matta de Haro nel 1617 fu indetto nella Chiesa di San Pietro Apostolo il primo Sinodo di Sala. Il cardinale Francesco Maria Brancaccio, eletto vescovo di Capaccio nel 1627 da papa Urbano VIII, fissò definitivamente la cattedra a Sala («come quella che, respirando a que’ tempi sotto il regio dominio, godeva sopra Diano il pregio della libertà; e come che quella comunità donato gli avesse un luogo da potervi fabbricare un Palagio per sua abitazione») e vi tenne un Sinodo nel 1629.
A Novi Velia fu celebrato invece il Sinodo del 1639, voluto dal vescovo Luigi Pappacoda.
Il successore Tommaso Carafa tenne a sua volta il Sinodo Diocesano a Sala in San Pietro nel 1649. Il suo vicario generale Camillo Ragone tuttavia trasferì gli uffici di Curia a Novi.
Soltanto circa un secolo e mezzo dopo, a causa degli umori di scor­danti del clero locale intorno al luogo della sede episcopale, ancora a Sala si riunì l’ultimo Sinodo della diocesi di Capaccio, indetto dal vescovo Angelo Maria Zuccari dal 20 al 23 marzo del 1794.

Ormai i tanti spostamenti avevano creato le condizioni perché dive­nisse inevitabile una spartizione territoriale: il vescovo Filippo Speranza, salito al soglio episcopale il 29 ottobre 1804, istituì un secondo Seminario pure a Novi; infine Sua Eccellenza Gregorio Fistilli la scelse definitivamente come propria sede nel 1845.

È, come già ricordato, del 1850 la Dismembratio Dioecesis Caputaquensis ac Erectio Novae Sedis Episcopalis Dianensis.

Il 30 settembre 1986, in forza del decreto Instantibus votis, prot. 949/86, della Congregazione per i Vescovi, l'unione delle diocesi di Teggiano e Policastro è divenuta piena e la diocesi risultante ha assunto il nome attuale: Diocesi di Teggiano-Policastro.

Con detto Decreto, la Congregazione, emanava le seguenti disposizioni:
1. La Diocesi. che ha questa nuova struttura, ha sede nella città di Teggiano, dove l'attuale Chiesa Cattedrale conserva questo titolo proprio.
2. La denominazione della Diocesi sarà questa: diocesi di Teggiano-Policastro.
3. L'attuale chiesa Cattedrale della città di Policastro prenderà il titolo di Concattedrale in memoria della sua inclita e antica tradizione.
4. Ci sarà un solo Capitolo Cattedrale, che sarà il Capitolo della Chiesa Cattedrale della sede episcopale. Il Capitolo della Chiesa Cattedrale dell'altra diocesi pienamente unita prenderà il nome di Capitolo Concattedrale.
5. Parimenti ci sarà una sola Curia Vescovile, e unico sarà il Tribunale Ecclesiastico, il Seminario, il Collegio dei Consultori, il Consiglio Presbiterale, l'Istituto per il Sostentamente del Clero, gli organismi per l'apostolato e tutte le altre istituzioni diocesane che sono previste dall'attuale diritto canonico. E' consentito al Vescovo di trasferire dalla sede della diocesi ad altro luogo alcuni uffici amministrativi.
6. I Santi Patroni delle singole diocesi, che vengono unite, saranno onorati come Patroni delle nuova Diocesi.
7. I sacerdoti e i diaconi, che fino a oggi erano incardinati nelle diocesi unite, d'ora in poi si riterrano incardinati alla nuova diocesi che è sorta dall'unione.
8. La nuova circoscrizione ecclesiastica include nel suo territorio e comprenderà i territori che appartengono oggi a ciascuna delle diocesi unite.
9. Insieme col territorio delle parrocchie, che finora appartenevano alle singole diocesi unite, sono attribuiti alla nuova circoscrizione ecclesiastica anche gli istituti ecclesiastici con i loro beni e i diritti in quasiasi modo loro spettanti, a norma del can. 121 del vigente Codice di Diritto Canonico.

Nella stessa data, 30 settembre 1986, fu nominato Amministratore Apostolico della nuova Diocesi di Teggiano-Policastro S.E. Mons. Gerardo Pierro.

L'11 febbraio 1987 S.E. Mons. Bruno Schettino, viene nominato Vescovo di Teggiano-Policastro.

Il 14 febbraio 1998 S.E. Mons. Francesco Pio Tamburrino, viene nominato Vescovo di Teggiano-Policastro.

Il 18 marzo 2000 S.E. Mons. Angelo Spinillo, viene nominato Vescovo di Teggiano-Policastro.

Il 26 novembre 2011 S.E. Mons. Antonio De Luca, viene nominato Vescovo di Teggiano-Policastro.