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Lasciatela fare

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Lasciatela fare (Gv 12,7)

Questo imperativo di Gesù si riferisce all’episodio che accade nella casa di Lazzaro a Betania, dove Gesù si reca per un momento di conviviale fraternità. Tra lo stupore dei convitati, una donna, Maria, compie un gesto a dir poco sbalorditivo. Cosparge i piedi di Gesù con olio di nardo assai prezioso, forse l’importo di un salario di un intero anno di un lavoratore. L’evento suscita stupore, meraviglia, e perfino irritazione in qualcuno dei presenti: Giuda. Iniziano illazioni, silenziose distanze e un tradimento fatto con le ‘buone maniere’. Uno sperpero inutile, un’ostentata captatio, non ne vale la pena, esagerazione sentimentale. Con quelle risorse si poteva fare di più e di meglio! Si tratta di un alibi. E’ in atto una vera ribellione di fronte alla profezia e al coraggio di testimoniarla. Agli occhi di alcuni, c’è della non ragionevolezza nel gesto di Maria, uno spreco che va contro il buon senso. Talvolta ci si appella a motivi, di per sé buoni, per frustrare la generosità di un dono totale. Ma il linguaggio dell’amore non rispetta sempre i canoni della ragione, dell’utile, del buon senso. L’amore ha bisogno di gesti eccedenti, com’è eccedente l’amore che Dio ha per noi e che Gesù ci ha descritto nelle parabole del padre misericordioso o nel suo incontro con l’adultera.

Il racconto nel suo nucleo è contenuto anche nei Sinottici, con accentuazioni e componenti distinte ma non contrarie. Attraverso una lettura parallele mi piace cogliere la straordinaria vocazione che dietro questo imperativo viene affidato a Maria. «in tutto il mondo, dovunque sarà predicato il vangelo, anche quello che costei ha fatto sarà raccontato, in memoria di lei» (Marco. 14, 9). In quell’imperativo è racchiusa la memoria del futuro di chiunque è capace di osare l’impossibile, di chi sa fare cose sorprendenti per la persona che ama. L’amore vero è di per sé eterno, perché immette e partecipa della natura più autentica del Dio amore.

Il gesto è accompagnato da un commovente silenzio. Maria non proferisce parola, semplicemente opera il dono. Sì il dono la condurrà nella frontiere di quel ricordo che invade la storia, così come il profumo del nardo profumato si diffonde dappertutto. L’amore fa nascere la fantasia della carità, spinge a gesti originali e non sempre immediatamente comprensibili, suscita interrogativi e lascia anche salutari inquietudini. La fantasiosa intraprendenza di Maria, che voleva solo esprime il suo Grazie al Divin Maestro, viene fraintesa e criticata. Lei è la testimonianza e la prefigurazione di una presenza pasquale nella vita di Gesù e dei suoi discepoli. I benpensanti di oggi e di ieri sono soliti presentarsi al Divino solo con la lista di interminabile e monotona richiesta. Si irritano se Dio resta muto, le loro orazioni sono pretese e non intercessioni e soprattutto non sono accompagnate dal dono, Dio resta muto perché noi siamo sordi. Maria si avvicina a Gesù senza chiedere nulla, solo dona, offre preziosissimo olio, compie un gesto di ospitalità ma anche una profezia dell’evento triste della morte. Ogni dono autentico e totale ha sempre una dimensione di profezia.

Quante obiezioni, ispirate da cosiddette buone intenzioni, sono invece dei veri e propri tradimenti, critiche aspre, e quante apparenti pie aspirazioni nascondono il tranello dei doppi fini, di interessi personali, di recondito tornaconto personale. Il dono di un cuore puro e il cammino del discernimento, sono congiunti non solo per scegliere il bene da fare ed il male da evitare, ma aiutano a rispondere con generosità alla propria vocazione.

In quel perentorio «Lasciatela fare!» Gesù prende le difese di una persona debole, forse anche chiacchierata per un passato sopra le righe eppure toccata dalla grazia, perciò la abilita a compiere gesti profetici di carità. Anche a noi Gesù chiede di lasciar fare laddove scorgiamo gesti di generosità che, pur germogliando senza i crismi dell’ortodossia o dell’impeccabilità, mostrano d’inserirsi nel grande alveo dell’amore di Dio e del prossimo.

+ p. Antonio, Vescovo

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Riempite le giare d'acqua

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Riempite le giare d'acqua (Gv 2,7)

Dietro questo imperativo, prontamente eseguito da coloro che erano addetti alle mense, vi si manifesta anche la vocazione dei discepoli, testimoni del primo segno, ma anche la vocazione di quello che sarà poi il nuovo popolo di battezzati. Le giare, testimonianza fredda e silente di una religiosità in dissolvimento, “sei anfore di pietra per la purificazione rituale” (Gv 2, 6) l’acqua, le prescritte abluzioni, sono l’immagine di un apparato religioso solo esteriore, senza più gioia, racchiuso nella fredda pietra, senza più la bellezza della condivisione, indicata dalla mancanza del vino.

Qualcosa ormai di vecchio deve lasciare il posto al nuovo. L’insignificanza di gesti e riti ormai desueti impongono un salutare ripensamento. Le giare vuote sono le esistenze che hanno smesso di alimentare la gioia dell’appartenenza a Dio, l’entusiasmo di cantare una presenza che, se si rivivifica, riporta il gaudio della pace e la pienezza di un impegno a servizio del bene e dei fratelli. «Ripensare la nostra vita di cristiani da questo punto di vista significa non tentare di misurare il nostro cristianesimo sul numero degli atti di culto compiuto sulle pratiche di pietà con cui riempiamo le nostre giornate. Significa invece interrogarci sulla conformità delle nostre azioni a una coscienza giudicata dalla volontà di Dio e veder poi il culto che noi rendiamo a Dio in relazione a tale concreto atteggiamento di vita. Infatti “obbedire vale più del sacrificio”… (1 Sam 15,22)» (Lezionario Meditato EDB, 2 p 109).

Obbedendo alla novità che è Gesù Cristo, anche le forme più anemiche e malaticce di alleanza diventano percorsi di vigorose riscoperte di amore, di alleanza, di impegno. Le vecchie giare inondate di acqua, sono il segno di stanche e ripetitivi schemi che, se riempiti invece di vita, possono persino irrorare pathos e fulgore. A Cana, nel segno dell’acqua trasformata in vino, si rifà la nuova creazione, la nuova storia. E l’acqua trasformata in vino diventa il linguaggio di un rinnovato impegno e di entusiasmo che contagia e che partecipa l’esultanza della festa e dell’incontro. L’imperativo di Gesù di riempire le giare, è preceduto dall’esortazione di Maria che dice ai servi: Qualsiasi cosa vi dica, fatela (Gv 2,5). Obbedire a quel comando significa mettersi alla scuola di un Maestro con il quale si aprono i confini dell’amore e della storia. Al di là di ogni pretesa, di meriti o di abilità, se si ascolta il Maestro egli conduce lontano!

Poco prima Maria avverte Gesù della mancanza del vino, si rende conto che la festa rischia di fallire. Il vino non può mancare! In questa richiesta è contenuta la speranza che Gesù possa fare qualcosa. Anche in questo caso, come altrove, alla richiesta di Maria, Gesù risponde con un interrogativo: Che c’è fra me e te? (Gv 2,4), una posizione di distacco che Gesù intende sottolineare con l’uso dell’appellativo Donna, che ricorrerà altre volte: alla samaritana (Gv 4, 21); alla peccatrice (Gv 8, 10); a Maria di Magdala (Gv 20, 13.15); di nuovo alla madre, sotto la croce (Gv 19,26). È come se Gesù mettesse in guardia la madre. L’inizio della sua vita pubblica, sollecitata dalla richiesta di Maria, non potrà lasciare le cose allo stesso modo, Maria dovrà diventare anch’essa discepola, dovrà iniziare a guardare quel Figlio come suo Maestro, dovrà mettersi dietro a lui e seguirlo, dovunque egli vada (Ap 14, 4).

Nonostante il tentativo di rifiuto, Gesù ordina di riempire le giare. Non è però la pressione della madre a fargli decidere di intervenire, ma Gesù lo fa per un’obbedienza che travalica i legami familiari, obbedienza ad un progetto salvifico che inizia con il segno del vino.

+ p. Antonio, Vescovo

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Venite e vedrete

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Venite e vedrete (Gv 1,39)

Siamo di fronte a parole che indicano un imperativo complesso ed un invito energico. Tale imperativo è preceduto da due domande che risuonano in un dialogo tra Gesù e i discepoli di Giovanni Battista: «che cercate?...... dove abiti?» (Gv 1, 38). Dietro quegli interrogativi vi è una ricerca, un bisogno di consapevolezza. Nella domanda di Gesù vi è un accertamento di autenticità; nella domanda di Andrea e dell’altro discepolo vi è una sete di ulteriore profondità, un’apertura alla compiutezza di una profezia e di una missione. Nelle parole sintetiche e misteriose di Giovanni Battista, riferite a Gesù che passava «Ecco l’agnello di Dio!» (Gv 1, 36), tutti comprendono che si è concluso un ciclo, una profezia si è avverata, i tempi sono maturi per nuovi riconoscimenti e, per questo che con grande senso di libertà interiore e gratitudine, Giovanni consegna i suoi discepoli al vero Maestro.

«Venite …» (Gv 1, 39) è invito, risposta e imperativo con il quale potrà essere aperto il nuovo progetto di vita di Andrea e degli altri discepoli. A chi gli ha chiesto informazione su un luogo, Gesù risponde con una proposta dinamica e coinvolgente. Un invito a mettersi in movimento: «venite…». Nel Vangelo questo imperativo ritorna frequente sulle labbra di Gesù. E’ rivolto a chi è triste, affaticato e oppresso: «Venite dietro a me» (Mt 11, 28); «Venite in disparte…» (Mc 6, 31). Ma c’è anche un invito alla festa: «Venite alle nozze» (Mt 22, 4).

Accettare questo comando significa mettersi in gioco, esprime disponibilità a lasciarsi alle spalle anche un bagaglio di buoni e suggestivi ricordi per aprirsi al nuovo e non ridurre la fede né a nostalgia né ad archeologismo. Rispondere all’invito significa emergere dall’invasione dell’accidia e dei rimpianti.

«…e vedrete» (Gv 1, 39). Il vedere non coincide con la conferma di aspettative preconfezionate, né di una superficiale constatazione di luoghi. Quel «…e vedrete» comporta l’esperienza di un ingresso straordinario in una relazionalità divina, che attraverso una vera umanità, induce ad assumere impegni e motivazioni. Ogni credente ed ogni battezzato può accogliere questo comando di Gesù e rimanervi, quasi sedotto e affascinato perché l’incontro con lui ed il suo Vangelo spalanca le porte alla “vita buona” e, tuttavia andare da Gesù, coincide con il rimanere in lui e portare frutto (cf Gv 15, 5).

Rimanere in Gesù significa dimorare con lui, stabilire una permanente comunione che infine è inabitazione trinitaria e che comporta anche il momento della lotta spirituale, della prova, del buio.

Un testimone del nostro tempo, il card. Martini così descriveva il suo incontro con Gesù: «La mia è stata una sistematica, crocifiggente e insieme salutare esposizione al dubbio, nella inermità di una coscienza alla ricerca del vero».

Dobbiamo imparare a fare i conti con questo duplice imperativo: «Venite e vedrete» (Gv 1, 39), non possiamo confondere le parole di Gesù come una pia esortazione, il Vangelo è attenzione ai fatti e agli insegnamenti del Maestro, è rivelazione di una vita spesa nell’amore. Bisogna lasciarsi scrollare dalle pseudo conquiste intellettualoidi e dei falsi calcoli, e anche dalle risposte troppo scontate, prudentemente calibrate, ovvie e perciò anche irrilevanti.

Chi va dietro a Gesù sa che deve necessariamente intravedere ed assumere la logica della croce e della gloria.

+ p. Antonio, Vescovo

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Non temere

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Non temere

«Non temere, Maria» (Lc 1, 30); «Non temere, Zaccaria» (Lc 1, 13); «Giuseppe non temere» (Mt 1, 20); «Non temete dunque: voi valete ben più di molti passeri» (Mt 10, 31); «Non temere, piccolo gregge» (Lc 12, 32); «Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno» (Mt 28, 10), ed a Pietro «Non temere d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5, 10).

Si tratta di un imperativo che attraversa le pagine di tutta la sacra scrittura. Non è un monito a fare qualcosa, ma un invito ad imparare a vivere nella consapevolezza che le grandi sconfitte della vita nascono dalla paura. Paura di soccombere, paura di rialzarsi, paura dei giudizi, paura di metterci la faccia, paura di ritrovarsi solo e disramato.

Eppure in una costellazione di paure subentra un indirizzo di ripresa e di speranza. Non temere… È il ritornello del canto di Dio nella storia della salvezza.

In questo monito si racchiude anche la prospettiva di un’esistenza incerta, dubbiosa, incapace di fidarsi di Dio e degli altri. Il timore e la paura tengono in ostaggio, occludono balzi speranzosi di avventure vocazionali che possono riempire di senso la vita. Le paure uccidono la verità delle relazioni. Si indugia, si resta inutilmente in attesa, persino la paura del rimpianto riesce a chiudere gli orizzonti.

Una ossessiva preoccupazione di osservanze, di regole e norme, una ipocrita fedeltà che è strumentale atteggiamento per scaricare i problemi, per rinviarli, o indirizzarli ad altri, questo è il vero fallimento. In preda al timore e alla paura si finisce per rimanere senza speranza e senza domani. Non si rischia sul futuro!

Strumentalizzare la paura permette ai prepotenti di innalzare barriere, stendere complici silenzi su tragedie e angosce che meriterebbero attenzione, risveglio e solidarietà. La paura è espressione di un male che invade l’anima, toglier il fiato, la parola, le emozioni, inaridisce i sentimenti e annebbia la ragione. Ecco allora il monito di Dio «Non temere»… Un prete operaio della diocesi di Milano scrive: «A conclusione di tutto, possiamo porre le tre leggi dell’umano educatore: non aver paura, non far paura, liberare dalla paura. Quello che conta è una relazione nuova, in cui non ci sia nulla che possa avere a che fare con la paura» (don Cesare Sommariva).

Dio sostiene il coraggio di gioire, nonostante tutto. E la gioia cristiana non è divertimento, né superficiale distrazione. Ma è generata dalla certezza che Dio è con noi: «Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani» (Is49,16), perciò il non temere è preludio di una nuova personale destinazione.

Non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia… Non avere paura di puntare più in alto… Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo… (Gaudete et exsultate, nn. 32-34).

+ p. Antonio, Vescovo